Il ritorno a casa
Inviato: ven nov 01, 2013 4:05 pm
Non c'era nessuno a dargli il benvenuto quando entrò in città. Arrivò nel bel mezzo di una notte immobile e nera; l'unica luce nel cielo era quella che soltanto i suoi occhi potevano vedere. Aveva mandato via il drago verde, a rimanere in attesa dei suoi ordini. Non passò attraverso le porte della città. Nessuna guardia fu testimone del suo arrivo.
Non aveva bisogno di passare attraverso le porte. I confini intesi per i comuni mortali non lo riguardavano più. Invisibile, ignoto, percorse le strade silenziose e addormentate.
Eppure c'era qualcuno che era consapevole della sua presenza. All'interno della grande biblioteca, Astinus, intento come sempre al suo lavoro, cessò di scrivere e sollevò la testa. La sua penna rimase sospesa per un istante sopra la carta, poi, scrollando le spalle, lo storico riprese ancora una volta a lavorare alle sue cronache.
L'uomo percorreva rapido le strade buie, appoggiandosi a un bastone che era decorato in cima da una sfera di cristallo stretta nell'artiglio dorato, privo di corpo, di un drago. Il cristallo era scuro. Non aveva bisogno di luce per illuminare il proprio cammino. Sapeva dove stava andando. L'aveva percorso nella propria mente per lunghi secoli. Le Vesti Nere frusciavano sommesse intorno alle sue caviglie mentre avanzava a grandi passi; i suoi occhi dorati luccicavano nelle profondità del suo cappuccio nero, parevano le uniche scintille di vita nella città addormentata. Non si fermò quando raggiunse il centro della città. Non gettò neppure un'occhiata agli edifici abbandonati con le loro finestre buie spalancate come le occhiaie di un teschio. I suoi passi non esitarono mentre passava tra le gelide ombre delle alte querce, anche se quelle ombre da sole erano state sufficienti a terrorizzare un kender. Le mani scarnificate dei guardiani che si allungavano per afferrarlo cadevano in polvere ai suoi piedi, e lui le calpestava senza curarsene.
L'alta torre comparve alla sua vista, nera contro il cielo nero come una finestra tagliata nella tenebra. E qui, infine, l'uomo abbigliato di nero si fermò. Immobile davanti alla porta, sollevò lo sguardo sulla Torre; i suoi occhi conglobarono ogni cosa, valutando freddamente i minareti distrutti e i marmi levigati che mandavano riflessi alla luce fredda e penetrante delle stelle. L'uomo annuì lentamente, soddisfatto.
Quegli occhi dorati abbassarono il loro sguardo sulla porta della Torre, sulle orribili vesti svolazzanti appese alla cancellata. Nessun comune mortale avrebbe potuto sostare davanti a quella cancellata e a quella porta così orrendamente infestonate senza impazzire d'innominabili terrori. Nessun comune mortale avrebbe potuto camminare illeso in mezzo alle querce guardiane.
Ma Raistlin era là, in piedi, immobile. Era là, immobile, calmo e senza nessuna paura. Sollevando le sue mani sottili afferrò quelle vesti nere a brandelli ancora macchiate del sangue di colui che le aveva indossate, e le strappò via dalle punte metalliche.
Un gelido, penetrante gemito d'indignazione si levò dalle profondità dell'Abisso. Fu così forte e orrido che tutti i cittadini di Palanthas si svegliarono rabbrividendo perfino dal sonno più profondo e giacquero nei loro letti paralizzati dalla paura, aspettando la fine del mondo. Le guardie sulle mura della città non poterono muovere né le mani né i piedi. Chiudendo gli occhi, si rannicchiarono fra le ombre, aspettando la morte. I bambini piagnucolarono nel dormiveglia per la paura, i cani si ritrassero terrorizzati sotto i letti, gli occhi dei gatti brillarono.
Quell'urlo stridulo echeggiò di nuovo, e una pallida mano si protese dalla porta della Torre. Un volto spettrale, contorto per il furore, galleggiò nell'aria umida.
Raistlin non si mosse.
La mano si avvicinò ancora di più, il volto gli promise le torture dell'Abisso, dove sarebbe stato trascinato per aver osato sfidare, nella sua incommensurabile follia, la maledizione della Torre. La mano scheletrica toccò il cuore di Raistlin. Poi, tremando, si arrestò.
«Sappi questo» disse Raistlin, con calma, sollevando lo sguardo sulla Torre, modulando la sua voce in modo che potesse esser sentita da quelli all'interno. «Io sono il padrone del passato e del presente! La mia venuta è stata predetta. Per me la porta si aprirà».
La mano scheletrica si ritrasse e, con un lento gesto d'invito, dischiuse l'oscurità. La porta si aprì girando sui cardini silenziosi.
Raistlin la varcò senza un solo sguardo alla mano o al pallido viso che si era chinato reverente. Quando entrò, tutte le cose nere e informi, di oscurità e d'ombra, che abitavano nella Torre, s'inchinarono in omaggio.
Poi Raistlin si fermò e si guardò intorno.
«Sono a casa» disse.
La pace discese su Palanthas, il sole lenì la paura.
Un sogno, mormorò la gente. Rigirandosi nei loro letti, ripiombarono nel sonno, benedetti dall'oscurità che porta il riposo prima dell'alba.
(Capitolo conclusivo de 'I Draghi dell'Alba di Primavera', Margaret Weis, Tracy Hickman 1985)
Non aveva bisogno di passare attraverso le porte. I confini intesi per i comuni mortali non lo riguardavano più. Invisibile, ignoto, percorse le strade silenziose e addormentate.
Eppure c'era qualcuno che era consapevole della sua presenza. All'interno della grande biblioteca, Astinus, intento come sempre al suo lavoro, cessò di scrivere e sollevò la testa. La sua penna rimase sospesa per un istante sopra la carta, poi, scrollando le spalle, lo storico riprese ancora una volta a lavorare alle sue cronache.
L'uomo percorreva rapido le strade buie, appoggiandosi a un bastone che era decorato in cima da una sfera di cristallo stretta nell'artiglio dorato, privo di corpo, di un drago. Il cristallo era scuro. Non aveva bisogno di luce per illuminare il proprio cammino. Sapeva dove stava andando. L'aveva percorso nella propria mente per lunghi secoli. Le Vesti Nere frusciavano sommesse intorno alle sue caviglie mentre avanzava a grandi passi; i suoi occhi dorati luccicavano nelle profondità del suo cappuccio nero, parevano le uniche scintille di vita nella città addormentata. Non si fermò quando raggiunse il centro della città. Non gettò neppure un'occhiata agli edifici abbandonati con le loro finestre buie spalancate come le occhiaie di un teschio. I suoi passi non esitarono mentre passava tra le gelide ombre delle alte querce, anche se quelle ombre da sole erano state sufficienti a terrorizzare un kender. Le mani scarnificate dei guardiani che si allungavano per afferrarlo cadevano in polvere ai suoi piedi, e lui le calpestava senza curarsene.
L'alta torre comparve alla sua vista, nera contro il cielo nero come una finestra tagliata nella tenebra. E qui, infine, l'uomo abbigliato di nero si fermò. Immobile davanti alla porta, sollevò lo sguardo sulla Torre; i suoi occhi conglobarono ogni cosa, valutando freddamente i minareti distrutti e i marmi levigati che mandavano riflessi alla luce fredda e penetrante delle stelle. L'uomo annuì lentamente, soddisfatto.
Quegli occhi dorati abbassarono il loro sguardo sulla porta della Torre, sulle orribili vesti svolazzanti appese alla cancellata. Nessun comune mortale avrebbe potuto sostare davanti a quella cancellata e a quella porta così orrendamente infestonate senza impazzire d'innominabili terrori. Nessun comune mortale avrebbe potuto camminare illeso in mezzo alle querce guardiane.
Ma Raistlin era là, in piedi, immobile. Era là, immobile, calmo e senza nessuna paura. Sollevando le sue mani sottili afferrò quelle vesti nere a brandelli ancora macchiate del sangue di colui che le aveva indossate, e le strappò via dalle punte metalliche.
Un gelido, penetrante gemito d'indignazione si levò dalle profondità dell'Abisso. Fu così forte e orrido che tutti i cittadini di Palanthas si svegliarono rabbrividendo perfino dal sonno più profondo e giacquero nei loro letti paralizzati dalla paura, aspettando la fine del mondo. Le guardie sulle mura della città non poterono muovere né le mani né i piedi. Chiudendo gli occhi, si rannicchiarono fra le ombre, aspettando la morte. I bambini piagnucolarono nel dormiveglia per la paura, i cani si ritrassero terrorizzati sotto i letti, gli occhi dei gatti brillarono.
Quell'urlo stridulo echeggiò di nuovo, e una pallida mano si protese dalla porta della Torre. Un volto spettrale, contorto per il furore, galleggiò nell'aria umida.
Raistlin non si mosse.
La mano si avvicinò ancora di più, il volto gli promise le torture dell'Abisso, dove sarebbe stato trascinato per aver osato sfidare, nella sua incommensurabile follia, la maledizione della Torre. La mano scheletrica toccò il cuore di Raistlin. Poi, tremando, si arrestò.
«Sappi questo» disse Raistlin, con calma, sollevando lo sguardo sulla Torre, modulando la sua voce in modo che potesse esser sentita da quelli all'interno. «Io sono il padrone del passato e del presente! La mia venuta è stata predetta. Per me la porta si aprirà».
La mano scheletrica si ritrasse e, con un lento gesto d'invito, dischiuse l'oscurità. La porta si aprì girando sui cardini silenziosi.
Raistlin la varcò senza un solo sguardo alla mano o al pallido viso che si era chinato reverente. Quando entrò, tutte le cose nere e informi, di oscurità e d'ombra, che abitavano nella Torre, s'inchinarono in omaggio.
Poi Raistlin si fermò e si guardò intorno.
«Sono a casa» disse.
La pace discese su Palanthas, il sole lenì la paura.
Un sogno, mormorò la gente. Rigirandosi nei loro letti, ripiombarono nel sonno, benedetti dall'oscurità che porta il riposo prima dell'alba.
(Capitolo conclusivo de 'I Draghi dell'Alba di Primavera', Margaret Weis, Tracy Hickman 1985)